Convegno Nazionale AIP: La dieta chetogenica
Esiste uno stretto rapporto tra la malattia di Parkinson, la nutrizione e il tratto gastroenterico.
Da un lato, si sa che l’assorbimento di levodopa nel tratto gastrointestinale è influenzato dallo stato di riempimento gastrico, perché per il suo trasporto dal lume intestinale al circolo ematico essa compete con gli aminoacidi, per cui l’eccesso di questi ultimi in un pasto proteico può ridurre l’assimilazione del farmaco. Dall’altro, si sa che i sintomi intestinali sono trai i più frequenti disturbi non motori associati alla malattia, che il migliorare la regolarità delle evacuazioni può ridurre i sintomi motori nel malato e che la perdita dei neuroni dopaminergici è documentabile nell’intestino già molti anni prima dello sviluppo dei primi sintomi del Parkinson.
Bene, ogni volta che si affronti il tema di nutrizione e malattia di Parkinson, questa premessa è inevitabile e generalmente lo sviluppo di tutto il discorso sarà sorretto proprio da tale pilastro. Eppure, quando si parla di possibili applicazioni della dieta chetogenica nella malattia di Parkinson, quanto finora detto diventa marginale o irrilevante. Infatti, la presenza del termine dieta può essere fuorviante. Se anziché chiamarla dieta chetogenica la chiamassimo “terapia chetogenica”, un po’ dei malintesi si chiarirebbero. Ma andiamo per ordine e innanzitutto spieghiamo di cosa stiamo parlando.
Come lascia presupporre il nome la chetogenesi è il processo endogeno di creazione dei chetoni, molecole derivate dal metabolismo dei grassi. Si tratta di un fenomeno fisiologico di adattamento al digiuno: in sostanza, noi mammiferi tendiamo a mettere da parte l’eccesso di energia introdotta con l’alimentazione sotto forma di depositi di tessuto adiposo, per poterne attingere nei momenti di deprivazione (ad esempio nei periodi di digiuno prolungati durante le carestie o nelle stagioni in cui i nostri antenati “cacciatori-raccoglitori” faticavano a reperire il cibo).
Quindi, essendo noi i discendenti di quei “lungo-digiunanti”, evoluzionisticamente ci siamo adattati a funzionare al meglio proprio nel momento di maggior difficoltà per l’assenza di cibo, essendo quello il momento in cui andavano garantite le migliori prestazioni mentali e fisiche per poter competere per accaparrarsi altro nutrimento. I grassi che compongono il tessuto adiposo sono molecole ad altissima densità energetica (più che doppia a parità di peso rispetto a carboidrati e proteine) e la loro mobilizzazione durante il digiuno libera una grande quantità di energia immagazzinata nel nostro organismo. Addirittura, l’energia resa disponibile è eccedente il fabbisogno istantaneo, quindi occorre trovare un modo per non tenerla più nel tessuto adiposo, ma nemmeno “bruciarla” futilmente in eccesso. È così che nascono i chetoni (o corpi chetonici), molecole energetiche che possono restare in circolo per un po’ nel nostro organismo, disponibili ad essere utilizzate non appena ve ne sia bisogno. Queste molecole sono molto particolari perché hanno numerosi effetti biologici: producono molta più energia dello zucchero a parità di peso e ossigeno consumato (sono un carburante più efficiente), hanno un importante effetto antiossidante, antinfiammatorio, neuroprotettivo, stimolano la moltiplicazione e l’efficienza mitocondriale (i mitocondri sono delle strutture intracellulari responsabili della produzione di energia utilizzabile dalla cellule) e sono in grado di modificare l’espressine di molti geni, mettendo l’organismo in una sorta di modalità protetta. Insomma, sembrerebbe proprio la panacea di tutti i mali.
Ovviamente non è così, questo processo ha pure alcune ombre legate allo squilibrio elettrolitico e le alterazioni metaboliche ad esso correlate. D’altronde stiamo parlando di una situazione emergenziale, il digiuno prolungato e obbligato dall’assenza della disponibilità di cibo, la cui durata è necessariamente limitata nel tempo (perché, quando poi si consuma tutto il tessuto adiposo o il pool di micronutrienti essenziali al corretto funzionamento dell’organismo, il soggetto deperisce e muore). Ma cosa accadrebbe se si potesse prolungare tale condizione per un lasso di tempo indeterminatamente lungo? È proprio questo che succede quando si instaura una dieta chetogenica: si inganna l’organismo facendogli pensare che si stia digiunando anche se in realtà così non è. Questa strategia ha consentito, a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, di prolungare il beneficio associato al cosiddetto “digiuno terapeutico” per tempi molto più lunghi. Tutto ebbe inizio con la cura dell’epilessia, si scoprì che sottraendo drasticamente dalla dieta i carboidrati, limitando le proteine e aumentando i grassi, l’organismo induceva il processo chetogenico, innalzando la chetonemia (cioè, la concentrazione dei chetoni nel sangue) e conseguendo un beneficio terapeutico molto simile a quello ottenuto dal digiuno, ma che poteva essere protratto pure per diversi anni. Nel giro di poco tempo, oltre all’epilessia, si estese lo spettro di patologie (neurologiche e non) che potevano essere trattate dalla dieta chetogenica con beneficio. E nella malattia di Parkinson?
Partiamo da lontano, cioè, dai modelli sperimentali: sia il digiuno che la dieta chetogenica si sono dimostrati essere protettivi verso lo sviluppo dei sintomi negli animali da esperimento sottoposti a procedure volte a indurre uno stato similparkinsoniano, come ad es., lesioni chirurgiche della sostanza nera, l’esposizione alla 1-metil-4-fenil-1,2,3,6-tetraidropiridina, meglio nota come MPTP, o alla 6 idrossidopamina, conosciuta pure come 6-OHDA. La cosa interessante imparata dai modelli sperimentali è pure un’altra: più precoce è l’inizio della dieta, maggiore sarà il tasso di efficacia. Ad esempio, gli animali da esperimento che seguivano la dieta già prima dell’esposizione alla procedura sperimentale per indurre la malattia, presentavano danni neuronali o sintomi notevolmente minori rispetto agli animali che iniziavano la dieta solo a seguito della procedura o della comparsa dei sintomi.
Tuttavia, se i modelli sperimentali sono promettenti, non significa che pure nell’essere umano ci debbano essere gli stessi benefici, perché non siamo simili agli animali da noi studiati, e la malattia indotta in essi non è necessariamente in tutto sovrapponibile a quella umana. Ciò nonostante ormai da alcuni anni si stanno accumulando alcune evidenze sui benefici di questo trattamento nei pazienti affetti da malattia di Parkinson.
Un primo dato clinico presente in letteratura riguarda uno studio pubblicato nel 2005 in cui si sottoponevano a trattamento chetogenico 7 soggetti con Parkinson, e 5 di questi riuscirono a portare a termine il periodo di studio di 28 giorni, con un miglioramento dei sintomi variabile dal 20 all’80%, misurato usando il punteggio totale della scala UPDRS.
Poi, nel 2018 e 2020 sono stati pubblicati 2 studi su rispettivamente 24 e 14 pazienti sottoposti a dieta chetogenica, da cui si evince che a migliorare sono prevalentemente i sintomi non motori, sebbene pure per quelli motori vi sia una tendenza favorevole (in rapporto ai miglioramenti osservati in un gruppo di controllo che seguiva una dieta “sana” con pochi grassi). Tra di essi, pure i sintomi cognitivi, come evidenziato nel 2019 in una popolazione di pazienti con Parkinson affetti pure da decadimento cognitivo lieve. Infine, nel 2021 è stato pubblicato un articolo scientifico da cui si evince un effetto della chetogenesi pure sulla qualità della voce.
Insomma, sembrerebbe che la dieta possa migliorare, almeno nel breve periodo, molti aspetti della malattia, salvo quelli motori (i più disabilitanti). Come mai? Probabilmente proprio perché si tratta di interventi di breve durata, oltretutto iniziati quando l’entità dei sintomi motori era già particolarmente elevata. Forse, mutuando l’esperienza accumulata con i modelli sperimentali, la dieta andrebbe intrapresa il più precocemente possibile, proprio per beneficiare del suo effetto neuroprotettivo e arginare la perdita neuronale indotta dalla degenerazione dei nuclei della base. Insomma, la dieta potrebbe far sopravvivere i neuroni, ma non riportare in vita quelli ormai perduti.
Un ultimo aspetto importante riguarda la fattibilità della dieta: può un soggetto anziano che assume più volte al giorno la levodopa seguire questo regime alimentare? I dati disponibili ci dicono di sì. Infatti, vi sono diversi studi in generale condotti sull’anziano volti a dimostrare la fattibilità della dieta, anche nei parkinsoniani, e senza alcuna influenza negativa sull’assimilazione della levodopa.
Detto questo, la dieta chetogenica è raccomandabile in un paziente con malattia di Parkinson? Al momento non ci sono evidenze sufficienti per poterlo dire, mentre al contrario potremmo affermare esattamente l’opposto: chi segua una dieta mediterranea ben calibrata e cadenzata nei tempi rispetto agli orari di assunzione dei farmaci, potrebbe avere dei benefici di tipo clinico notevoli rispetto a chi mangi in maniera più irregolare o inconsapevole. Ciò non significa che in futuro non si possano raccogliere le evidenze necessarie per poter ribaltare la raccomandazione, ma al momento la dieta chetogenica resta un ottimo argomento di ricerca, non ancora traslabile nella pratica clinica quotidiana.
A cura del Dott. Cherubino Di Lorenzo, UOC di Neuroriabilitazione Universitaria del ICOT di Latina