Dimostrata la correlazione tra risultato della risonanza e quantità di neuromelanina nel cervello
Dr. L. Zecca
Risalgono agli anni ’90 i primi studi svolti dal gruppo del Dr. Zecca, che ha posto le basi per l’utilizzo della neuromelanina come marcatore diagnostico nella malattia di Parkinson. In quegli anni hanno dimostrato che la neuromelanina è un composto di colore marrone formato da melanina (la sostanza che dà colore), ferro, lipidi e proteine, che si forma all’interno di organelli nelle cellule nervose (neuroni). Esso si accumula a partire dai 2-3 anni di vita e raggiunge quantità elevate nei neuroni dopaminergici nella sostanza nera, dove è responsabile per il colore scuro di quell’area del cervello. Secondariamente è presente anche nei neuroni noradrenergici contenenti neuromelanina di un’altra area del cervello, chiamata locus coeruleus e anche questi neuroni vengono colpiti precocemente nel Parkinson.
Nella malattia di Parkinson vanno progressivamente persi i neuroni nella sostanza nera e, quindi, diminuisce anche la concentrazione di neuromelanina in quell’area che assume un aspetto sempre più pallido. La riduzione ammonta al 30-80%.
Già nel 2002 il gruppo del Dr. Zecca aveva suggerito che, dato che la neuromelanina lega il ferro formando complessi stabili, si poteva sfruttare la tecnica per immagini chiamata risonanza magnetica per monitorare il contenuto di neuromelanina della sostanza nera, che riflette il numero di neuroni dopaminergici ancora presenti.
Il suggerimento è stato raccolto da altri ricercatori che hanno mostrato la fattibilità di usare la risonanza magnetica per generare immagini della sostanza nera e del locus coeruleus di buona qualità.
Ora il gruppo del Dr. Zecca ha dimostrato che l’intensità del segnale della risonanza magnetica è proporzionale al contenuto reale di neuromelanina, fornendo una base solida per l’uso della risonanza magnetica per la diagnosi di malattia di Parkinson. Inoltre, altri ricercatori hanno dimostrato che vi è una buona concordanza con i risultati dell’esame attualmente disponibile in clinica per la diagnosi di malattia di Parkinson, ovvero la DAT-SCAN.
Perché usare la risonanza magnetica al posto del DAT-SCAN? Innanzitutto i risultati forniti dai due esami sono complementari e possono essere usate entrambe a scopo diagnostico. La risonanza magnetica della neuromelanina è un esame rapido e poco costoso. Tuttavia, bisogna tenere presente che l’esame DAT-SCAN presenta lo svantaggio dell’uso di un isotopo radioattivo, che impedisce il suo uso ripetuto, che invece è fattibile con la tecnica della risonanza magnetica. La ripetizione dell’esame nel tempo sarebbe molto utile per una serie motivi:
Permetterebbe di monitorare la progressione della perdita neuronale della malattia in aggiunta all’andamento clinico e quindi di ottimizzare la terapia anche su questa base
Potrebbe essere usata a scopo di ricerca per valutare gli effetti di terapie potenzialmente neuroprotettive (=capace di rallentare o fermare la perdita dei neuroni dopaminergici)
Potrebbe essere impiegato in pazienti a rischio di sviluppo del Parkinson (per es. Con una storia di Parkinson in famiglia) e persino in soggetti sani per diagnosticare la malattia quando è ancora nella fase pre-sintomatica, per esempio, ogni 10 anni a partire dai 40 anni di età.
Infine, la disponibilità di un esame che permette la diagnosi della malattia di Parkinson in maniera affidabile prima che si manifesti la sintomatologia è indispensabile per poter mettere a punto una terapia in grado di fermare la malattia in fase precoce, in modo che il soggetto non ne debba mai soffrirne – il vero obiettivo delle ricerche sulla malattia.