I meccanismi alla base della compulsione al gioco indotta da terapia antiparkinsoniana
Intervista al Dr Roberto Cilia, specializzando in Neurologia presso l'Università di Milano - Bicocca e che opera anche presso il Centro Parkinson ICP Milano
JH: Ciao Roberto. Se non erro, sei appena tornato dal Centro Parkinson che la Fondazione Grigioni ha appena aperto in Ghana. Davvero ci sono parkinsoniani laggiù?
RC: Sì, ci sono. Il responsabile del Centro Comboniano locale padre Novati, dove è stato aperto il centro, ha organizzato una campagna informativa, dicendo a tutti quelli che soffrivano di tremore che venivano medici neurologi dall'Italia. Si sono presentati diverse persone con malattia di Parkinson. In Africa non ci solo bambini affamati, ma anche anziani che, come in tutto il mondo, si ammalano di Parkinson, e non possono permettersi le cure.
JH: Ho capito, allora vale la pena di parlare di questa esperienza in un'altra occasione. Veniamo all'obiettivo della nostra chiacchierata di oggi. Mentre eri in Africa parecchi pazienti si sono fatti avanti, chiedendo i danni per la compulsione al gioco indotta da terapia parkinsoniana, e si parla molto di questa patologia. E proprio adesso esce il lavoro (Cilia e coll Arch Neurol 2008; 65: 1604-1611) in cui tu hai studiato pazienti parkinsoniani con la compulsione al gioco tramite le neuroimmagini. Quando e come hai avuto l'idea di svolgere questo studio?
RC: La compulsione al gioco non è una novità, è un effetto collaterale che osserviamo da alcuni anni al centro Parkinson ICP. Un paio di anni fa mi sono domandato quali potessero essere i meccanismi alla base di questo disturbo insolito ed ho cercato una risposta in letteratura. Ho visto che non c'era nessuno studio nei pazienti con malattia di Parkinson in terapia, ma soltanto in individui con gioco d'azzardo patologico ma senza questa malattia . Dato che svolgo abitualmente studi con le neuroimmagini ho pensato di farne un altro in questa patologia per trovare la risposta ed i miei colleghi hanno aderito con entusiasmo.
JH: Hai certamente scelto il periodo giusto. E allora, che cosa hai scoperto?
RC: Nei pazienti parkinsoniani con compulsione al gioco ho trovato una stimolazione eccessivamente elevata di alcuni circuiti nervosi, responsabili per la percezione della ricompensa ed il controllo dei desideri; questa iperstimolazione non era presente né in soggetti sani, né in pazienti parkinsoniani senza compulsione al gioco.
La dopamina è un importante neurotrasmettitore che nel cervello fa funzionare sia circuiti motori che non motori. La somministrazione di terapia dopaminergica va a stimolare entrambi; in alcuni pazienti in cui il circuito non motorio è ben conservato, la stimolazione è eccessiva e può causare la compulsione. A ulteriore conferma di questa ipotesi c'è la dimostrazione di compulsione al gioco non solo in pazienti parkinsoniani, ma anche in pazienti con la sindrome delle gambe senza riposo, una patologia in cui i circuiti nervosi cerebrali sono intatti.
JH: La scoperta è basata sulle neuroimmagini ottenute tramite SPECT (tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli). Che cosa si vede tramite questa tecnica?
RC: La SPECT mette in evidenza cambiamenti nel flusso di sangue nelle varie aree del cervello. Se il flusso aumenta, come in questo caso, vuole dire che le cellule nervose funzionano di più, anche se non necessariamente bene. Infatti, nel nostro studio, gli aumenti di flusso sanguigno in alcune aree corrispondevano ad un funzionamento eccessivo e perciò patologico.
JH: Questa scoperta ha qualche conseguenza per la pratica clinica?
RC: Sì. I pazienti parkinsoniani con iperstimolazione assumevano dosi di farmaci antiparkinson (levodopa e dopamino agonisti) sovrapponibili a quelli assunti dai pazienti parkinsoniani senza iperstimolazione. Pertanto, la patologia non dipende dalla prescrizione di una dose eccessivamente alta di questi farmaci, ma da una predisposizione dei circuiti nervosi del singolo paziente, che potrà essere più o meno sensibile alla terapia. Infatti questo disturbo viene solo in una piccola percentuale dei pazienti trattati. La conseguenza più importante sul piano clinico di questo studio è di rendere noto a neurologi e quindi ai pazienti e alle loro famiglie di questo possibile effetto collaterale, potenzialmente molto grave. Invitiamo pertanto sia i pazienti e le famiglie a farci attenzione e riferire al neurologo curante eventuali disturbi di questo tipo, in modo da porvi rimedio. Nella maggior parte dei casi è infatti sufficiente ridurre i dosaggi dei farmaci.
JH: Quali sono i punti di forza di questo studio?
RC: I pazienti con compulsione al gioco sono stati selezionati attentamente, sottoponendoli a particolari indagini neuropsichiatriche che confermano la patologia compulsiva, ma escludono altre possibili cause, come la demenza.
Inoltre, le immagini sono state raccolte non solo in 11 pazienti parkinsoniani con compulsione al gioco, ma anche in 40 pazienti parkinsoniani senza compulsione al gioco e 29 soggetti sani, aventi pari età, sesso e terapia dopaminergica (sia per quanto riguarda l'entità che la suddivisione tra levodopa e dopamino agonisti); pertanto, siamo sicuri che che la differenza osservata tra pazienti parkinsoniani con e senza compulsione al gioco non è dovuta a differenze inerenti a questi fattori potenzialmente confondenti.
JH: E adesso, un pò di autocritica: quali sono le debolezze del lavoro?
RC: Abbiamo inserito pochi pazienti con compulsione al gioco (del resto, non sono tanti, il fenomeno è abbastanza raro). Per questo motivo non possiamo identificare i fattori di rischio per la patologia. Speriamo di riuscirvi in uno studio successivo. Finora altri ricercatori ne hanno identificato due: una personalità che è curiosa, ha sempre bisogno di nuovi stimoli; e l'impulsività. Un altro passo su cui stiamo già lavorando è la ricerca di fattori di predisposizione genetica con studi sul DNA.
JH: Allora continuerai tu gli studi sulla compulsione al gioco? Pensavo che tu fossi in partenza di nuovo.
RC: Effettivamente lo sono e penso che saranno i miei compagni di specialità a svolgere gli studi sulla identificazione dei fattori di rischio nei pazienti con la malattia in stadio iniziale e che non hanno ancora iniziato la terapia farmacologica. Io mi trasferisco per alcuni mesi in Canada, presso un famoso centro per lo studio del Parkinson a Toronto, in Canada. A questo proposito vorrei ringraziare la Fondazione Grigioni che contribuisce a questa iniziativa. L'esperienza sarà importante per la mia formazione di neurologo con particolare interesse nella malattia di Parkinson.
JH: Mi racconterai le tue esperienze quando torni. Nel frattempo, buon viaggio e buona permanenza nel mio paese natio, anche se sarai nell'Ontario, a tantissimi chilometri dalla mia Provincia, British Columbia (inutile dire che secondo me è più bella!).