Endocannabinoidi e malattia di Parkinson
Intervista al Prof Mauro Maccarrone: Professore Ordinario di Biochimica e Direttore di Scienze Biomediche dell'Università di Teramo
JH: Professore, Lei svolge ricerche sugli endocannabinoidi. Ci racconti il percorso professionale che l'ha portata ad occuparsi di questi composti e che cosa sono.
MM: Dopo avere conseguito la laurea in Scienze Biologiche ed il Dottorato di Ricerca in Enzimologia in Italia, mi sono trasferito a Utrecht in Olanda, dove ho conseguito un Dottorato di Ricerca in Chimica Bio-Organica e sono stato assunto come ricercatore universitario. Al rientro in Italia ho lavorato come ricercatore di biochimica a Roma Tor Vergata e poi a Teramo, dove sono diventato Professore Ordinario di Biochimica. Fin dall'inizio mi sono occupato di derivati dell'acido arachidonico, quali i leucotrieni e le prostaglandine. Ora mi occupo dei derivati dell'acido arachidonico di ultima generazione, gli endocannabinoidi. Essi sono composti naturalmente presenti nell'organismo che regolano diverse funzioni, tra cui la riproduzione (permettono l'impianto dell'uovo fecondato nell'utero) e diversi circuiti nervosi, tra cui quelli nello striato che si alterano nella malattia di Parkinson.
JH: Quale tipo di ricerche svolge il suo laboratorio? Collaborate con neurologi?
MM: Negli ultimi 4-5 anni il mio laboratorio ha messo a punto una serie di metodi che permettono di misurare le concentrazioni di queste sostanze naturali nell'organismo e questo ci ha permesso di stabilire come si alterano alcuni endocannabinoidi in presenza di malattie neurodegenerative, tra le quali la malattia di Parkinson. Collaboriamo con ricercatori del Centro Europeo per la Ricerca sul Cervello (CERC) / Fondazione Santa Lucia a Roma e con la Clinica Neurologica, Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Roma Tor Vergata.
JH: Ha svolto ricerche specificamente nella malattia di Parkinson?
MM: Sì. Abbiamo svolto ricerche in un modello animale di malattia di Parkinson ed abbiamo scoperto che un endocannabinoide, l'anandamide, aumenta nel sistema nervoso centrale in presenza di lesioni parkinsoniane. Il dato è stato confermato nella scimmia e poi noi lo abbiamo confermato anche nel liquido cefalorachidiano di pazienti parkinsoniani non ancora trattati farmacologicamente.
Quando l'inibitore di un enzima che degrada l'anandamide è stato somministrato a ratti con lesioni parkinsoniane, il loro deficit motorio è migliorato notevolmente.
JH: Questo che cosa significa?
MM: La nostra interpretazione è che l'aumento dell'anandamide rappresenti una difesa dell'organismo e che sia pertanto neuroprotettivo. Pensiamo che il miglioramento della sintomatologia venga conseguito tramite la capacità dell'anandamide di correggere lo squilibrio nei circuiti nervosi nello striato. L'ultima nostra scoperta è che l'anandamide riduce i livelli di un altro endocannabinoide che ha effetto opposto, ovvero effetti negativi sui circuiti nervosi - il 2-arachidinonoilglicerolo.
JH: Allora gli inibitori della degradazione dell'anandamide potrebbero essere usati per la terapia della malattia di Parkinson?
MM: In prospettiva noi pensiamo di sì. Per esempio, potrebbero essere utili per compensare la progressiva perdita di efficacia della levodopa nel tempo. Gli inibitori esistono già e vengono già somministrati all'uomo nell'ambito di sperimentazioni cliniche nell'ansia. Tuttavia, bisogna procedere con cautela, in quanto bisogna valutare bene la loro tollerabilità. Un antagonista selettivo dei recettori cannabici di tipo 1, il rimonabant, oltre ad essere efficace nel promuovere la perdita di peso (circa 10% del peso corporeo in un anno), causa depressione anche grave, a riprova della sua capacità di influenzare circuiti nervosi. Bisogna inoltre valutare le ripercussioni sulla fertilità, anche se ovviamente questo aspetto è meno importante nel parkinsoniano, che generalmente non è più giovane.
In ogni modo noi proseguiremo le ricerche a stretto contatto con i clinici, perchè il nostro vero obiettivo non è l'ampliamento delle conoscenze sugli endocannabinoidi con tante belle pubblicazioni, ma la messa a punto di qualche cosa di concreto che serva ai malati.
JH: Prima di concludere, due parole sui derivati della canapa ovvero la marijuana.
MM: La marijuana è una sostanza che ha una struttura diversa dagli endocannabinoidi presenti naturalmente nel cervello, ma tuttavia ne mima l'attivazione recettoriale. Ecco perchè può avere effetti simili agli endocannabinoidi, che possono essere positivi ma anche negativi e potenzialmente pericolosi. Ritengo che la via corretta per una strategia terapeutica vincente sia quella che passa attraverso composti in grado di modulare la concentrazione degli endocannabinoidi naturali, piuttosto che quella basata sulla somministrazione di sostanze esterne.